Sempre più Stato nella finanza e nelle grandi imprese italiane. L’era del Covid ha accelerato una trasformazione che già era iniziata negli anni scorsi: con il via libera dell’Unione europea, che proprio a causa della pandemia ha allentato la presa sugli aiuti di Stato, ormai si moltiplicano le situazioni: salvataggi, necessità di sistemare situazioni patologiche, creazioni di campioni nazionali.
Si tratta spesso di situazione opposte, che portano però sempre allo stesso risultato: aumenta la presenza dello Stato. Che sia poi un male o un bene lo si vedrà tra qualche anno. Di sicuro l’eccessiva presenza dello Stato nel lontano passato ha portato a una minore competizione sul mercato. Ovvio che il soggetto di emanazione governativa venga preferito sempre e comunque. In ogni caso se l’intervento di Roma pare logico nei salvataggi, nel caso almeno in cui un’azienda sia strategica, meno logico sembra quando si vanno a colpire tematiche e meccanismi di mercato.
Ormai la morsa tentacolare sta arrivando in ogni settore. L’ultimo caso sotto i riflettori è quello di Unicredit, anche se in questo caso l’influenza è indiretta. Un pressing del Governo, come riportato dai media in questi giorni, per separare piazza Gae Aulenti dal suo Ad Jean Pierre Mustier, che voleva trasformare la banca in player europeo creando una sub-holding estera e che al contrario non voleva fare operazioni di fusione e acquisizione, tanto meno l’unione con Mps se non a determinate condizioni: cioè a rischio zero per piazza Gae Aulenti. Se il matrimonio fra Unicredit e Mps dovesse andare in porto con uno scambio azionario, potrebbe verificarsi un evento fino a qualche mese fa impensabile: cioè l’ingresso dello Stato in piazza Gae Aulenti come azionista a fianco di centinaia di fondi istituzionali esteri. Infatti Unicredit è una public company dove nessun socio ha più del 2%.
Il caso patologico resta quello del Montepaschi, che trasporta con sé il fardello di rischi legali miliardari. Come si farà a metterle il vestito delle nozze per darla in consegna “ripulita” a Unicredit? Mps rappresenta il peggior scandalo politico-finanziario degli ultimi trent’anni e non per nulla ad oggi ha assorbito quasi 12 miliardi di fondi pubblici e un altro aumento di capitale da 2,5 miliardi (secondo le stime di mercato) è oggi necessario.
Ma le attività dello Stato sono confluite anche nella gestione dei crediti problematici bancari, tramite la creazione di Amco dalle ceneri della Sga, la società che aveva recuperato le sofferenze bancarie del Banco di Napoli. Ad Amco non stanno finendo soltanto pacchetti di Npl per curare situazioni patologiche (come appunto nel caso dei crediti malati di Mps) ma il gruppo sta diventando a tutti gli effetti un nuovo potente soggetto del mercato, con la partecipazione ad aste competitive. Con le logiche lamentele degli altri player privati del mercato: all’Npl meeting di Banca Ifis in settembre le polemiche per la partecipazione di Amco ad aste competitive sono state sollevate da diversi servicer privati.
Ma l’altro fronte caldo è quello dei trasporti. Si attende l’ennesima offerta di Cdp per Atlantia per acquistare Autostrade per l’Italia. In questo caso la Cassa è alleata ai fondi internazionali Blackstone e Macquarie e il nodo principale resta quello del prezzo. Uno degli azionisti internazionali di Atlantia, cioè Tci, ha spiegato che la cessione di Aspi è inpensabile a un prezzo inferiore al range compreso tra 11 e 12 miliardi di euro. Al contrario la valutazione di Cdp è più bassa di alcuni miliardi e si basa su alcuni fondamenti: il Capex, la necessità di investimenti aggiuntivi per le autostrade e le cause di risarcimento indirette dovute al crollo del Ponte Morandi.
Si va poi all’acciaio. Lo Stato è infatti tornato nella gestione dell’Ilva 25 anni dopo il passaggio dell’ex Italsider ai privati del gruppo Riva che nel 1995 si erano aggiudicati il colosso dell’acciaio statale battendo competitor come Lucchini. L’acciaio torna dunque allo Stato e l’operazione avviene tramite Invitalia, l’altro grande veicolo utilizzato ormai dal Governo per le sue operazioni di salvataggio: vedi la stessa Popolare di Bari. Invitalia, che è guidata da Domenico Arcuri, il commissario all’emergenza nel vento delle polemiche in questi mesi per la gestione della pandemia, entrerà in Am Investco, società di Arcelor-MIttal, al 50% per poi prendere la maggioranza. Restano i danni economici enormi causati dall’Ilva sulle finanze pubbliche: come ha raccontato Paolo Bricco proprio sul Sole 24 Ore, 8 anni di caos sono costati 50 miliardi di euro di Pil. Senza contare l’Ilva pubblica era già costata ante privatizzazioni circa 15mila miliardi di lire di debito pubblico.
C’è poi il caso patologico per eccellenza, cioè Alitalia. Anche in questo caso il salvataggio di Stato è già in cantiere: così mentre compagnie private come Easyjet hanno annunciato il taglio della flotta italiana, la compagnia di bandiera ha assorbito nell’ultimo triennio 8 miliardi di soldi pubblici e altri ne assobirà in futuro.
C’è da obiettare che la gestione privata in questi casi è stata un fallimento. Sarà meglio la gestione pubblica? Anche qui i dubbi restano in quanto il rischio dell’altra faccia della medaglia è quello di delapidare soldi pubblici.
In questa sequenza di recenti salvataggi, c’è però anche qualche esempio da portare a modello: è quello della creazione di un campione europeo del fintech, tramite l’unione di Nexi, Sia e Nets sotto il controllo di fatto della Cdp. In questo caso ha avuto successo un modello che dovrà essere riutilizzato: quello dell’unione di investitori privati, nel caso in questione Bain Capital, Advent e Clessidra, con un investitore pubblico come la Cassa Depositi e Prestiti.