L’imprenditore Flavio Briatore e il suo impero di ristoranti e locali sono sotto i riflettori in questi giorni a causa delle chiusure dovute al coronavirus.
Si parla tanto soltanto del Billionaire in Sardegna, ma in realtà il gruppo posseduto da Briatore ha il suo baricentro all’estero. L’Italia conta pochissimo. Come tutto il settore, negli ultimi mesi, è stato colpito fortemente dal Covid.
Proprio Briatore ha provato a vendere un anno e mezzo fa una quota (fino al controllo) della sua catena di ristoranti e locali nel mondo, ma le trattative (con i fondi di private equity e qualche imprenditore russo) non erano poi andate a buon fine, viste le elevate richieste di prezzo dello stesso imprenditore. Alla fine però era stata trovata una soluzione intermedia: un compratore per il 49% dei soli ristoranti con marchi Twiga e del Billionaire al Family Office inglese Clementy, che aveva rilevato così la minoranza delle quote dei due marchi.
Briatore puntava in realtà ad aprire il capitale di tutto il gruppo, forse a cedere anche il controllo (pur restando sempre in minoranza e a capo della gestione), ma il nodo restava appunto la richiesta elevatissima che avrebbe fatto ai potenziali compratori. Il dossier di cessione dei ristoranti era stato definito “Progetto Glamour” e affidato alla banca d’affari Mediobanca.
Ma vediamo da cosa è costituito il piccolo impero di Briatore nei ristoranti di lusso, che prima del Covid (secondo i dati che circolavano all’inizio del 2019) aveva un giro d’affari di circa 60 milioni di euro. Gruppo fortemente focalizzato sull’estero, il fatturato dell’Italia contava già allora solo per il 12 per cento. Facile prevedere che con il Covid questa percentuale si sia ancora più ridotta.
Più dell’Italia, le capitali dei grandi ricchi sono sempre stati più attraenti per questo tipo di business: a Montecarlo viene generato il 32% degli introiti, ma soprattutto da Dubai arriva il contributo maggiore con ben il 44% delle entrate. A generare più fatturato è infatti il Billionaire di Dubai che genera ben 18,1 milioni di giro d’affari e 5,7 milioni di margine operativo lordo. Il Beefbar sempre di Dubai vale invece circa 7 milioni di fatturato e 2 di Mol. Il Crazy Fish, ancora a Dubai, genera quasi 4 milioni di vendite e poco più di un milione di Mol.
Se si passa al Principato di Montecarlo, al contrario, il Twiga si evidenzia con 11 milioni di fatturato e 3,9 milioni di Ebitda (con una redditività del 35%). C’è poi il Cipriani, sempre di Montecarlo, con 7,7 milioni di fatturato e quasi 3 milioni di margine operativo lordo.
Tra gli asset in portafoglio c’è anche la pasticceria milanese Cova, localizzata sempre a Montecarlo. Quest’ultimo locale, posseduto in partnership con Lvmh, genera 2,3 milioni di fatturato e circa mezzo milione di margine operativo lordo.
Il restante 12% degli incassi viene prodotto dal ristorante di Londra. Il Sumosan Twiga genera circa 8 milioni di giro d’affari e oltre 2 milioni di Mol. Poco vale appunto l’Italia: il Twiga di Forte dei Marmi, posseduto assieme a Daniela Santanché, genera 4 milioni di fatturato e 1 milione di Ebitda. Il Billionaire in Sardegna quasi 4 di fatturato e poco meno di un milione di Mol. Complessivamente i 9 ristoranti del gruppo hanno così raggiunto negli esercizi passati i 53,9 milioni di fatturato con 14,6 milioni di Ebitda. A fine 2018 era prevista una chiusura di giro d’affari a quasi 66 milioni con poco meno di 20 milioni di margine operativo lordo e quindi con una redditività del 30,2 per cento.
Ovvio che questi sono i dati pre-covid e a questi numeri bisogna ora dare una sforbiciata di almeno il 30%. Proprio nei giorni scorsi, oltre alle limitazioni del Billionaire in Sardegna, è stato chiuso a scopo precauzionale il Cipriani di Montecarlo, dove viene generato il 30% in media degli introiti del gruppo. Insomma, dopo i lockdown di primavera, il business dei ristoranti non si è ancora ripreso sulla scia della grave crisi per tutto il settore.
